USA versus Cina, la crescita dei due colossi corrobora il quadro positivo globale
La Cina di Xi Jinping ha cominciato a usare il successo economico come leva politica per allargare la propria area di influenza, ha investito in infrastrutture in Africa, ha promosso gli investimenti nel programma Belt and Road Initiative, negli ultimi mesi ha fatto leva sul successo conseguito nella lotta al virus per esercitare soft power sui paesi economicamente più deboli. La “superpotenza emergente benevolente”, come piace autodefinirsi all’establishment di Pechino, promuove fuori dai confini il proprio modello di governo in aperta alternativa ai sistemi democratici occidentali, un modello di “autoritarismo benevolo” che garantisce la sconfitta del virus in tempi rapidi, crescita e prosperità economiche, sicurezza sociale. Qualche nodo sta però venendo al pettine anche nel modello di governo cinese. Il debito accumulato della Cina è tre volte superiore al PIL, i default di alcuni grandi gruppi hanno spazzato via l’illusione della “Public Put”, la fiducia nel governo come prestatore di ultima istanza sempre e comunque. La mano autoritaria si avverte anche nella vita delle imprese, il segnale più forte è stata la sospensione a novembre della IPO di Ant, il gigante del Fintech.
La Cina fronteggia inoltre il problema dell’invecchiamento della popolazione, pesante lascito della politica del figlio unico degli anni Settanta. Sarebbe fuorviante assimilare l’espansionismo cinese all’imperialismo sovietico dello scorso secolo, la potenza economica della Cina è ben diversa da quella della Russia di Krusciov e Breznev. Sono più numerose, piuttosto, le similitudini con il confronto che nel quinto secolo avanti Cristo opponeva Sparta, potenza egemone, ad Atene, potenza emergente. Gli Stati Uniti, potenza egemone e globale, sono la moderna Sparta sfidata dalla nuova Atene, la potenza emergente della Cina. Ma poiché si tratta di richieste che mettono in discussione lo status-quo, non possono non costituire motivo di preoccupazione per gli Stati Uniti, assuefatti al ruolo di potenza globale.
Un convincimento che unisce le amministrazioni Trump e Biden è certificato dall’esito del primo incontro diplomatico tra i ministri degli esteri in Alaska. Non è stato un caso che il segretario di stato americano abbia fatto visita, prima dell’incontro con la delegazione cinese, al Giappone e alla Corea dove non sono mancati rilievi critici alla Cina. Gli Stati Unti hanno anche ripristinato il “Quad”, la partnership con Giappone, India e Australia con l’obiettivo di contenere le provocazioni militari cinesi nelle acque attorno a Taiwan. I paesi alleati degli USA hanno cominciato una progressiva diminuzione della dipendenza dalla Cina: il Giappone con un piano di “reshoring”, il rientro in patria di attività produttive delocalizzate finanziato con oltre due miliardi di dollari, l’Australia ha respinto la rete 5G di Huawei e ha ingaggiato un aspro confronto diplomatico con Pechino.
Nel corso delle conversazioni ad Anchorage non una singola questione è stata appianata, l’unico ambito nel quale i due paesi si sono trovati d’accordo è nel proseguire gli sforzi per il contrasto al riscaldamento globale: l’amministrazione Biden ha ripreso l’agenda della transizione energetica e il nuovo piano quinquennale cinese prevede il traguardo della “neutralità carbonica” entro il 2060. Quanto più la Cina consolida la propria forza economica e militare, tanto più può permettersi di respingere le pressioni diplomatiche esterne. Del resto, un dialogo anche duro è sempre preferibile alla mancanza di dialogo. La conclusione dei gelidi colloqui ad Anchorage è che la relazione tra Stati Uniti e Cina è cambiata, Pechino mette in guardia gli americani a non superare certe “linee rosse” e Washington sarà più sensibile alle violazioni dei diritti umani e alle istanze delle libertà conculcate.
C’è però una terza area di contesa che, almeno questa, è di beneficio a tutto il mondo, il ruolo di locomotiva e traino dell’economia globale. Stati Uniti e Cina sono entrambi su binari di crescita economica robusta, legati da rapporti commerciali e finanziari tali per cui è mutuo interesse non esacerbare le tensioni. La pandemia ha colpito duramente l’economia cinese ma già nell’ultimo trimestre la crescita era tornata sopra il 6%, unico paese a chiudere il 2020 con tasso di crescita positivo. Il piano quinquennale non ha stabilito obiettivi di crescita quantitativi ma qualitativi, sono previsti investimenti in infrastrutture anche tecnologiche e la creazione di posti di lavoro ad alto livello di competenze, l’obiettivo di lungo periodo è il raddoppio del PIL entro il 2035.
Dall’altra parte del Pacifico la domanda per consumi, già alta, è destinata a crescere con gli ulteriori assegni governativi e con l’avanzamento spedito della somministrazione vaccinale: la seconda metà dell’anno potrebbe essere stellare per l’economia americana. Dall’inizio della pandemia, un po’ per forza di cose, un po’ per l’incertezza sul futuro, gli americani hanno accumulato risparmio in eccesso di circa 1.700 miliardi di dollari e la Fed ha rivisto al rialzo le stime della crescita che nel 2021 potrebbe avere “caratteristiche cinesi”, tra il 6% e il 7%. La crescita nelle due maggiori economie del mondo corrobora il quadro positivo dell’economia globale, le azioni cinesi hanno valutazioni estremamente interessanti e sono ancora fortemente sotto-rappresentate negli indici globali: nell’indice MSCI AC World la Cina pesa il 5,5% ma la sua economia conta per circa il 18% sul PIL mondiale. Le prospettive di crescita negli Stati Uniti fanno intravedere un nuovo positivo ciclo di utili societari che rende giustizia delle valutazioni più alte.