Le tre grandi vittime provocate dal conflitto Russia/Ucraina
Al termine del primo mese di guerra le prospettive sono più cupe di quanto sembrasse all’inizio. Le sanzioni economiche pesano sull’economia russa e, come il contraccolpo di un’arma maneggiata male, danneggiano anche i paesi europei. Quanto più si prolunga il conflitto tanto più a lungo le sue scorie tossiche resteranno nell’organismo economico.
Si dice che la prima vittima di ogni guerra sia la verità. In questa guerra, così tragica nel suo anacronismo, oltre ai soldati e alla popolazione civile ci sono altre tre grandi vittime: il dividendo economico della pace, la cooperazione internazionale, l’emergenza climatica. Dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica i governi occidentali hanno beneficiato di risorse “liberate” dalle minori spese in armamenti, un vero e proprio “dividendo di pace” costituito da risorse economiche che potevano essere impiegate in altre voci di bilancio. Negli anni della Guerra Fredda e della guerra in Vietnam, il bilancio della difesa negli Stati Uniti ammontava a oltre l’11% del Pil, era sceso sotto il 7% nel 1989, oggi è attorno al 3,5% del Pil del paese. In Europa le spese militari sono sempre state tradizionalmente più basse, Gran Bretagna e Francia spendono per la difesa circa il 2% del Pil nazionale, ancora meno Italia e Germania la cui spesa militare è attorno a 1,5%. La logica di potenza manifestata dalla Russia cambia le cose: nei giorni immediatamente successivi all’invasione, il cancelliere tedesco Scholz annunciava l’aumento del budget per la difesa a oltre il 2% del Pil, l’Italia si appresta a fare altrettanto, si torna a parlare di difesa europea. Ma l’aumento delle spese militari non sarà indolore, la fine del dividendo della pace avrà conseguenze durature sui debiti pubblici e, soprattutto, sulle politiche di spesa nel welfare e nell’ampiezza delle misure anticicliche quando dovessero servire.
La seconda vittima è la cooperazione internazionale. La collaborazione amichevole tra paesi è la precondizione indispensabile per modelli produttivi efficienti, se la diffidenza farà premio sulla fiducia, catene di approvvigionamento più corte garantiranno più alti standard di controllo e sicurezza ma anche maggiori costi. La terza vittima della guerra, prima per rilevanza, è l’emergenza climatica. Il ritorno all’uso massivo delle energie fossili è una follia, ha detto il Segretario Generale dell’ONU, ma intanto si riattivano le centrali a carbone, si intensifica l’estrazione di petrolio e gas da rocce di scisto e sabbie bituminose, si allontanano nel tempo gli obiettivi dei tagli alle emissioni nocive.
La guerra combattuta in Ucraina continua con altri mezzi lungo le linee dei gasdotti e delle rotte delle navi cisterna che trasportano il gas liquefatto: il gas è la fonte energetica più efficiente per accompagnare la transizione energetica: è abbondante, meno inquinante, versatile negli impieghi. Il gas è vitale per il funzionamento delle economie europee e per la salute finanziaria della Russia il cui bilancio dipende per circa la metà dall’esportazione di idrocarburi. Oltre la metà del fabbisogno di gas della Germania è coperto dalle forniture russe, l’Italia, povera di rigassificatori e di riserve (sufficienti per soli due mesi se si interrompessero le forniture dall’estero), è alle prese con le conseguenze delle scelte, anzi delle non-scelte, di una politica energetica offuscata da scarsa preveggenza, o dall’eccesso di fiducia sulle fonti rinnovabili o, forse, dalla ricerca di facile consenso. Nonostante le diverse condizioni di partenza dei paesi dell’Unione (ad esempio la Francia è autonoma per il 75% del suo fabbisogno energetico), l’adozione di una politica energetica comunitaria non è più rinviabile.
Il modello attuale è inefficiente, va superata la struttura delle “catene energetiche verticali”, organizzate cioè con le varie fonti di energia indirizzate “a monte” verso specifiche destinazioni di impiego finale (ad esempio il petrolio è destinato ai trasporti e all’industria, il carbone e il gas naturale sono impiegati per il riscaldamento e la produzione di elettricità). La persistenza delle tensioni sui prezzi dell’energia e dei prodotti agricoli mette pressione sulle banche centrali.
La settimana scorsa Powell ha aumentato la durezza del linguaggio, il mercato del lavoro è “estremamente tirato” e l’inflazione è “troppo alta”, ha detto, “c’è l’ovvia necessità di muoversi con rapidità per riportare la politica monetaria a un livello più neutrale e poi di passare a livelli più restrittivi se questo è ciò che è necessario per ripristinare la stabilità dei prezzi”. Le parole di Powell hanno innescato vendite massicce dei titoli governativi, i rendimenti sono nuovamente tornati verso l’alto ma il giorno dopo la Federal Reserve di Dallas avvertiva che senza gli approvvigionamenti energetici russi la recessione globale diventerebbe più probabile. Altri analisti mettono in evidenza come la guerra abbia fatto riemergere la natura di “supply-driven” dell’inflazione che richiederebbe una risposta diversa da parte delle banche centrali. Insomma, lo scenario è complesso, le analisi si frastagliano e gli esiti restano molteplici: l’incertezza deforma e ottunde lo scenario economico e salgono le probabilità di errori di policy da parte dei banchieri centrali.
Non sappiamo quali saranno le prossime sorprese, ma sappiamo che ci saranno sorprese e la diversificazione del portafoglio serve proprio ad attenuarne l’impatto, è un esercizio “sottrattivo”, spiega nel suo ultimo libro il professor Paolo Legrenzi, si sottrae incertezza aumentando la diversificazione, evitando di concentrare le previsioni positive su pochi strumenti di investimento.